giovedì 17 marzo 2011

viaggio nella terra della luce e dell' ombra

Antartide

Viaggio nella Terra della Luce e dell'Ombra

“Le montagne non sono stadi dove placo la mia ambizione al successo.
Sono cattedrali dove pratico la mia religione.”
Anatolij Boukreev

Testo e foto di Giuseppe Pompili


Sdraiato sul letto di un’anonima camera d’albergo di Punta Arenas, all’estremo sud del Cile, osservo svogliatamente alcune chiazze scure sul soffitto che rivelano la trasandatezza del posto, nonostante i 50 Euro al giorno della singola. Accanto a me, sul comodino, il telefono nero resta ostinatamente silenzioso. Sto aspettando una chiamata, ma i miei vestiti, sparsi a casaccio ai quattro angoli della stanza, tradiscono la mancanza di fiducia sulla possibilità che sia oggi il giorno buono. Sono bloccato qui ormai da sei giorni e le mie chances di partire restano le stesse del primo. Ogni quattro ore Rachel, della Antarctic Logistics & Expeditions (A.L.E.), l’agenzia che fornisce il servizio di trasporto in Antartide, mi comunica il bollettino meteo aggiornato. Non è possibile partire, non finché le raffiche sulla pista d’atterraggio della base di Patriot Hills scenderanno al di sotto dei 20 nodi. Da giorni il vento si mantiene ostinatamente sopra questa soglia e non ci sono le condizioni perché il quadrireattore russo Ilyushin76 possa atterrare in sicurezza. Mike Dell, responsabile commerciale nonché uno dei proprietari della A.L.E., mi aveva avvisato, non senza un pizzico di sadismo, che i voli per l’Antartide non sono regolari voli di linea, di quelli che arrivi all’ultimo, fai il check-in e poi parti, così. Alcuni giorni di attesa a Punta Arenas sono la norma, anzi, dovevo considerarmi fortunato perché i due gruppi precedenti avevano atteso ben dieci giorni. Pare che sia la stagione più inclemente degli ultimi vent’anni...
La dipendenza dal telefono ti consuma. Così, mentre il primo giorno attendevo la chiamata vestito di tutto punto, pronto a partire con la giacca di piumino sottobraccio e gli scarponi con la ghetta integrale ai piedi, ora mi limito a starmene disteso, ascoltando musica dei Negrita. Lo squillo del telefono mi scuote con la forza di una scossa elettrica: “Giusseppi? Good news for you, the wind is now below 14 mph. Just be ready in 30 minutes… we’ll pick you up from Condor de Plata…”. Accidenti! Fra mezz’ora saranno qui, e lo zaino è ancora da fare… dove sono finite le calze pesanti! E non ho ancora messo il rullino in una delle tre macchine fotografiche che mi porto appresso come fossero un talismano anziché un fastidioso ingombro… e dov’è finito il dannato GPS? Meglio tenerlo sempre a portata di mano, non si sa mai… intanto il tempo passa, e mi costringe a mandare al diavolo i buoni propositi. Ficco tutto dentro a casaccio nello zaino e nel borsone, che lascio in deposito. Quando arriva il pullman, mi trova pronto. Appena in tempo. Penso all’ironia di farmi sorprendere in ritardo, avendo avuto a disposizione un’intera settimana. Il problema è che, non appena il meteo diventa favorevole, l’Ilyushin decolla con pochissimo preavviso, chi c’è c’è, in modo da sfruttare al massimo la finestra favorevole e minimizzare il rischio di dover tornare indietro a metà strada. Sul pullman verso l’aeroporto faccio per la prima volta conoscenza con i miei compagni d’avventura. Siamo vestiti pesanti e sembriamo un po’ incongrui nella frizzantina aria primaverile dell’estate australe. Ventotto persone in tutto, di diverse nazionalità, tra cui tre donne. Io sono l’unico italiano, uno dei cinque che, negli ultimi venti anni, si sono imbarcati su questo straordinario volo diretto in Antartide. Quasi tutti gli altri fanno parte di gruppi guidati: riconosco quelli della Alpine Ascents, il gruppo della Seven Summits, i tedeschi dell’Amical, un altro di Victor Saunders, un architetto londinese che ha lasciato la professione per fare il mestiere di guida e capospedizione. Poi ci sono i belgi, i quattro della spedizione commemorativa di Scott, guidata da Geoff Somers, e infine due spaiati come me, Daisuke Tamada, ingegnere elettronico di Tokio e Daniel Tebay, un simpatico insegnante di educazione fisica di un college londinese, entrambi qui per progredire nella loro sfida alle Seven Summits anche se a tutti e due manca ancora l'Everest. Faccio subito la loro conoscenza, perché molto probabilmente dovremo salire il monte Vinson insieme, considerato il fatto che le regole della A.L.E. non permettono alle persone sole di avventurarsi fuori dalla base. Il motivo, oltre all’obbligo dell’autosufficienza imposto dal punto 27.4 del Trattato Antartico, è prevenire incidenti che potrebbero compromettere i delicati equilibri che consentono a questa Agenzia di essere l’unica società privata al mondo ad operare in Antartide. All’aeroporto di Punta Arenas ci sottoponiamo ad un vero e proprio check-in internazionale: lasciamo il Cile con tanto di visto d’uscita sul passaporto tra gli sguardi curiosi e un po’ meravigliati dei turisti diretti a Santiago. Il cargo russo è un pachiderma dell’aria, d’aspetto solido e robusto ma sgraziato come uno struzzo con le ali piegate in basso. Si capisce subito che è stato progettato senza economia, a fini militari. Per un volo in Antartide consuma 90.000 litri di cherosene, fatto che giustifica, almeno in parte, il costo elevato della spedizione. L’interno è un’unica grande stiva illuminata da fioche luci gialle e avvolta in penombra malgrado quattro oblò circolari. Si respira un’atmosfera di sobria vetustà: l’alto soffitto è tutto un groviglio di cavi e tubature, con le catene del carro ponte che oscillano nell’aria che sa d’olio e di benzina. Occorre procedere a tentoni lungo il pavimento ingombro di cataste di rifornimenti per la base e di decine di grossi fusti di carburante. Poco dopo il decollo, i bidoni metallici emettono forti schiocchi a causa della pressurizzazione. Mi guardo intorno, di normali sedili neanche a parlarne, ci sono solo delle lunghe panche laterali… mi scappa da ridere se penso al briefing di sicurezza sui voli di linea… qui, nell’eventualità di un atterraggio d’emergenza, faremmo un bel botto, e tanti saluti. Il rumore assordante impedisce ogni conversazione. Fuori, attraverso i vetri appannati, si intravedono candidi batuffoli di nuvole. Ho più fortuna quando riesco infine a raggiungere la postazione dell’ingegnere di navigazione, situata nel lato inferiore della carlinga. Dalla torretta fa capolino un cielo di cobalto che sbiadisce nella luminosa foschia bianca appiccicata all’orizzonte. Sorvoliamo il canale di Drake e l’intera penisola antartica senza scorgere il minimo dettaglio. A cinque ore dalla partenza, tremila chilometri più a sud, il massiccio aeroplano atterra in maniera sorprendentemente dolce sulla superficie di ghiaccio vetroso, duro come il ferro, sfiorando a poche centinaia di metri le affilate creste rocciose delle vicine colline. L’Ilyushin non spegne neppure i motori, ma scarica e carica in fretta, per ripartire poco dopo con un rombo assordante. Scendo goffo e impacciato attraverso lo scivolo di coda, troppo coperto per gli stentati undici gradi sottozero che mi attendono fuori. Anche se ci avevano avvisati di guardare dove mettevamo i piedi, assisto a qualche acrobatico capitombolo sul ghiaccio trasparente della pista, liscia come un tavolo da biliardo. Questo ghiaccio denso e antico, di colore blu per l’assenza di bolle d’aria, si forma in condizioni molto particolari, quando l’ablazione è maggiore della precipitazione. Solo la sua presenza consente l’atterraggio del pesante aeromobile e, di conseguenza, l’esistenza stessa della base di Patriot Hills. E’ con grande emozione e molta cautela che poso piede per la prima volta sul ghiaccio antartico, un istante tante volte immaginato da apparirmi ora quasi normale. Il sole splende alto, anche se è quasi mezzanotte, incastonato in un limpido cielo turchese senza nuvole. Non devo preoccuparmene: mi trovo a 80 gradi di latitudine sud e, per i prossimi tre mesi, non tramonterà mai. Il personale della base è cortese ed efficiente. Ci chiedono se qualcuno desidera uno strappo in motoslitta fino alle tende. Declino l’invito, come la maggior parte dei nuovi ospiti, perché preferisco sgranchirmi le gambe percorrendo a piedi il chilometro che ci separa dalla base. L'altopiano gelato dove mi trovo è chiuso a oriente dalla catena di colline del Patriota, basse e scure, che proseguono in lontananza sino alle “Montagne di Marmo”. Più oltre, la catena sprofonda nel ghiaccio per riemergerne solo molto più avanti, assai bassa sull’orizzonte. A sud non ci sono ostacoli e lo sguardo è libero di spaziare in direzione del Polo, distante un migliaio di chilometri. A ovest, quasi un puntolino nella bianca distesa, sorge un solitario nunatak, le “Tre Vele”. Provo un brivido, ma non è per il freddo. Credo che parte del fascino dell’Antartide risieda nella possibilità di ammirare dal vivo lo spettacolo della natura. Si prova una bizzarra sensazione nel sentirsi così piccoli e inermi al cospetto di un paesaggio schiacciante, ma al tempo stesso è molto seducente sporgersi nel vento e sentirne le gelide carezze. Non c’è nulla di razionale in tutto questo, ma a volte è bellissimo essere incoerenti. E’ come per un bambino sguazzare nelle pozzanghere o sporcarsi di proposito col fango, e tutto possiede lo stesso fascino.
Patriot Hills è un campo mobile che poggia su di un ghiaccio spesso oltre seicento metri. Un grappolo di tende colorate che, all’inizio di ogni estate, viene rimontato in una posizione leggermente diversa per impedire che la neve si accumuli sottovento alle tende, generando nuovi rilievi sulla superficie. Ai margini, dietro ad un mucchio di fusti di benzina, ci sono i Twin Otters, tre motoslitte e un paio di cingolati per sgombrare la pista dalla neve soffiata dal vento. All’arrivo, siamo accolti dal comandante, Mike Sharp, un veterano del British Antarctic Survey espertissimo di faccende antartiche nonché uno dei proprietari della A.L.E., che ha fatto preparare la cena. Più che di una cena si tratta di un banchetto, con pasta al forno, generose fettone di roastbeef con contorno di purè e verdura fresca, frutta e zuppa inglese, il tutto innaffiato da birra e vino a volontà! Caspita, ma qui siamo all’ingrasso! Non faccio in tempo a sedermi a tavola che un omone si avvicina e mi saluta abbracciandomi stretto con la sua morsa da plantigrado… è Victor Boyarsky, forse il più grande esploratore russo, che mi aveva guidato al Polo Nord alcuni anni fa. Ci perdiamo in chiacchiere, mentre mi accompagna al tavolo di Mike Sharp e Geoff Somers curioso di sapere delle mie avventure sull’Everest, facendomi perdere così il drink di benvenuto, fatto con ghiaccio che risale alla rivoluzione francese… noblesse oblige! Immediatamente, le mie quotazioni presso i miei due nuovi amici, l’inglese e il giapponese, salgono alle stelle. Ci vorrà del bello e del buono per rassicurarli che sono una persona qualunque, per giunta poco allenata, che ha avuto il privilegio di conoscere, per puro caso, alcuni grandi. Dopo un sonno tranquillo in una spaziosa tenda della base, con brandina e materassino, mi comunicano che il tempo al campo base del Vinson volge al bello per cui partiremo subito dopo colazione. Due Twin Otters, carichi dei nuovi arrivati, decollano sui pattini uno dopo l’altro e proseguono appaiati durante tutto il volo sopra il Liberty Range e le propaggini meridionali dei Monti Ellsworth. A bordo c’è posto per otto persone, oltre al pilota, più tutto il nostro equipaggiamento che comprende tende, slitte, sci, combustibile e viveri per due settimane. Il motivo per cui si cerca di riempire il più possibile il turboelica è che per coprire i 215 km che separano Patriot Hills dal campo base del Vinson ci vogliono 27.000 dollari di carburante. La benzina in Antartide vale oro. Per inciso, questa è anche la cifra minima che occorre pagare per un’evacuazione d’emergenza, senza contare l’eventuale volo extra dell’Ilyushin… i congelamenti qui sono solo per chi se li può permettere, uomo avvisato... !
L’aereo si dirige verso ovest. Sorvoliamo rilievi che si allungano in catene parallele alla nostra direzione di volo. Zone pianeggianti si alternano a campi di crepacci e correnti glaciali che riversano la loro mole verso il mare, nella barriera di Ronne. Le creste scure sotto di noi si alzano gradualmente e diventano picchi talmente scoscesi che la neve non riesce ad aderire stabilmente sui loro fianchi. In direzione sud le catene si abbassano e scompaiono, inghiottite dalle vastità gelate dell’interno. Dopo un lungo tratto parallelo alle montagne, atterriamo in salita sul ghiacciaio Branscomb, all’imbocco di un’ampia valle chiusa da ripide pareti rocciose. È il campo base del Vinson, il monte più alto dell’Antartide. Il Twin Otter ci scarica e riparte subito. Tornerà tra una decina di giorni, tempo permettendo. I miei due nuovi compagni ed io iniziamo subito a montare la tenda. Il tempo è splendido, non una nuvola turba lo splendore turchino del cielo. La luce è intensa e purissima, non solo a causa del riflesso del ghiaccio. E’ una luminosità diversa da qualsiasi altra, perché qui l’aria è quasi del tutto priva di umidità e polveri sospese. Davanti a me troneggia una ripida scarpata rocciosa alta duemila metri, solcata da imponenti seraccate che si gettano a valle dal pianoro superiore. Lassù, remota e minuscola, fa capolino l’inconfondibile cima piramidale del Vinson, alta 4897 metri. Più che una semplice montagna, il Vinson è un massiccio di 13 per 21 chilometri situato nel bel mezzo dei monti Ellsworth. La catena si protende in direzione est-ovest a un migliaio di chilometri dal Polo Sud, nel cuore dell’Antartide, di cui costituisce la massima elevazione. Le nude cime di roccia metamorfica, la maggior parte delle quali ancora senza nome, hanno più di cento milioni d’anni. L’attrito millenario del mantello di ghiacci ne ha scolpito i possenti fianchi, danzando al ritmo delle ere glaciali. Nulla turba l’immacolato nitore delle valli, né morene né macigni o detriti. Persino la sabbia e la polvere sono state spazzate via da tempo immemorabile. Le proporzioni qui sono tali da ingannare facilmente la percezione delle distanze. In pochi minuti credi di poter arrivare a un luogo in apparenza vicino e invece ci vogliono delle ore, come fosse un miraggio. La cima dista sei chilometri in linea d’aria dal campo base, alto circa duemila metri, ma per salirla occorre percorrerne più di venti. Domani vedremo. E’ una fortuna aver trovato questo bel tempo, dove la vista può spaziare senza limiti nell’aria limpida, indugiando fino al remoto Polo. Non fa neppure troppo freddo, stimo una quindicina di gradi sotto lo zero. Il desiderio di imprimere tutto nella mente e di godermi questi momenti mi tengono sveglio sino a mezzanotte, ora di Punta Arenas, le tre al meridiano locale. Il sole qui in estate non tramonta mai. Si limita a descrivere una traiettoria circolare in cielo, senza abbassarsi mai troppo. Le ore scorrono identiche l’una dopo l’altra. In assenza di nuvole e vento, tutto è immobile e silenzioso. Solo le ombre delle montagne si muovono, seguendo il cerchio del sole. Quando l’ombra mi raggiunge, la temperatura precipita di colpo di una decina di gradi. E’ ora di entrare in tenda nel tepore del sacco piuma. Con i miei due compagni ci alziamo solo dopo le dieci, quando l’ombra ci ha lasciato. Appena il sole ci illumina il telo si scalda e la brina del nostro fiato incrostata alle pareti della tenda, inizia a sciogliersi, gocciolando fastidiosamente. Ci prepariamo lentamente, senza fretta, caricando la slitta e allacciandoci sci e scarponi. Dopo esserci legati in cordata, iniziamo a risalire il ghiacciaio. La nebbia si alza e ci avvolge quando per fortuna siamo in prossimità del campo uno. Mi libero degli sci e inizio a scavare la neve morbida per ricavare grossi blocchi rettangolari che dispongo a forma di muro di recinzione attorno alla tenda. Il riparo deve essere robusto e i lembi della tenda bene ancorati per evitare che il vento se la porti via in caso di bufera. Intanto, i miei due compagni sciolgono la neve e preparano la cena sul fornello a benzina. Nuvole basse ci avvolgono ma siamo già chiusi dentro la tenda, al sicuro. L’ombra e la morsa di gelo che l’accompagna ci lasciano solo alle 11 del giorno dopo. Oggi decidiamo di non muoverci e di dedicare la giornata salendo un colle a due chilometri del campo, per favorire l’acclimatazione. Un’altra giornata trascorre immobile, prima di dirigerci verso l’headwall, un enorme scivolo ghiacciato che porta al colle tra il Vinson e lo Shinn, la terza montagna dell’Antartide. Dietro allo Shinn fanno capolino due altri giganti di roccia, il Gardner e l’Epperly, rispettivamente la quarta e la sesta montagna del continente. Per salire l’headwall, mi tolgo gli sci e me li metto sullo zaino. Occorre molta cautela in questa sezione per via dei crepacci nascosti e della caduta di seracchi dall’alto, per cui indossiamo i ramponi e, legati, piccozza alla mano, procediamo facendo brevi pause per riprendere fiato. Il ripido pendio è cosparso di blocchi di ghiaccio compatto precipitati di recente, è meglio fermarsi qui sotto solo lo stretto tempo necessario, anche perché siamo entrati nell’ombra dello Shinn e il gelo si fa presto sentire. Finalmente raggiungiamo il colle tra le due montagne, alla quota di 3750 metri e il terreno diventa di nuovo pianeggiante. Montiamo la tenda al bordo del colle, non lontano dalla seraccata dell’headwall e ci prepariamo ad un altro giorno di riposo. Lascio i miei compagni per fare un’escursione attraverso il colle e dare una sbirciatina sull’altro versante della catena. Dopo un’ora di cammino non sono ancora arrivato in vista della fine: qui tutto è così immenso. Anziché oziare nella gelida tenda, un po’ per riscaldarmi un po’ per fare qualcosa, decido di aiutare le guide della A.L.E. che stanno rimuovendo una montagna di urina gelata, lasciata in eredità dai gruppi dell’estate scorsa. Scopro così che non sempre tutti rispettano alla lettera le prescrizioni. Infatti, dopo che il bidone di plastica adibito alla raccolta dell’urina del campo 2 si era riempito sino all’orlo, alcuni sozzoni non si erano fermati, ma avevano continuato a riempirlo anche quando il liquido era debordato, creando un lastrone gelato color canarino spesso 30 centimetri. Nell’arido ambiente antartico le macchie gialle possono restare visibili per molti anni… i soliti furbi per cui il diritto di sporcare è compreso nel prezzo. Le guide avevano l’incarico di rimuovere il brutto pasticcio. Armati di pala e piccone ci diamo da fare per frantumare il ghiaccio giallo, riempiendo dei sacchi che poi svuotiamo in un vicino crepaccio. Quando arriva l’ora di cena, riscaldo sotto alla giacca un salame gelato e me lo mangio di gusto: non capita spesso di divertirsi faticando. La notte trascorre tranquilla, anche se il vento è aumentato. Vestiti di tutto punto e imbragati partiamo alle nove, nonostante il freddo intenso, perché oggi è il giorno più lungo, il giorno della vetta. Il pendio si fa più dolce, permettendomi di procedere con gli sci ai piedi. Sono l’unico, visto che tutti gli altri li hanno abbandonati ai piedi dell’headwall. L’imponenza del paesaggio è tale che si nasconde persino a sé stesso, celando la vetta sin quasi al termine della salita. Gli ultimi duecento metri di dislivello si fanno in cresta, per cui lascio gli sci accanto allo zaino e mi armo di piccozza. La cresta è sottile, elegante ed aerea. Bellissima. Nuvole leggere scavalcano i fianchi della montagna, sospinte da un lieve vento da nord, dal mare lontano, ma io sto salendo con loro, e con gli U2 nelle orecchie. Supero una falsa cima, che dal basso sembra quella vera, poi proseguo lungo la sinuosa cresta di roccia che precipita vertiginosa verso il basso da un lato e con un ripido pendio dall’altro. La cresta si fa ripida e il fiatone dovuto alla quota mi fa fermare un paio di volte, ma ormai il cucuzzolo nevoso è sempre più vicino. Giungo sul punto culminante, segnalato da una corta asta di alluminio che è lì da vent’anni, intorno alle tre del pomeriggio, il mezzogiorno locale. Non fa poi così freddo, è l’ora più calda e ci saranno meno venti, Ne approfitto per spogliarmi e riprendere la classica foto di vetta in mutande, dedicata a tutti quelli (e non sono solo alpinisti) che si prendono troppo sul serio. La cima regala una vista incomparabile. L’orizzonte meridionale è dominato dalla calotta dell’Antartide Occidentale, un oceano di ghiaccio che si alza gradualmente sino a fondersi col cielo in un candore accecante. Tutto intorno sorgono montagne inviolate. Il versante opposto precipita nel ghiacciaio Dater, che si getta più in basso nella corrente glaciale di Rutford, un fiume di ghiaccio a scorrimento veloce (più di un metro al giorno) che alimenta il tavolato di Filchner Ronne, l’enorme barriera madre di tutti i grandi iceberg. Ma è già ora di scendere, la nebbia si alza, il vento rinforza e la giornata si chiude nel whiteout quando fortunatamente siamo già a poche centinaia di metri del campo due. Il giorno dopo il cielo è di nuovo sereno e mi godo la discesa. Devo ammettere che sciare sui sastrugi con uno zaino da venti chili contenente i miei stessi rifiuti stivati negli appositi wag-bag non è esattamente il massimo del divertimento… Eppure, due giorni dopo, circondato dal relativo comfort di Patriot Hills, mentre attendo l’Ilyushin, mi prende un groppo alla gola. Sento già la mancanza di questa terra severa che forse non rivedrò più, la sua indifferente bellezza, le montagne che sorgono come cattedrali nel deserto, il suono del vento, l’ombra e la luce, la luce.

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