martedì 29 marzo 2011

carramba beviamo del whisky!

                                  

Lassù in cima al Monte Nero
c'è una piccola caverna
ci son dodici briganti
al chiaror d'una lanterna.

Rit.
Caramba beviamo del wiskhy
caramba beviamo del gin
e tu non dar retta al cuore
che tutto passerà.

Mentre tutti son festanti
uno solo resta muto
ha il bicchiere ancora pieno
perché mai non ha bevuto?

Rit.

Ma non può dimenticare
il brigante la sua bella
gli occhi suoi color del mare
la sua bocca tanto bella!

I pomodori....pensi che ci sia niente di piu' interessante ?

Pensi ci sia niente di piu' interessante ????

venerdì 25 marzo 2011

Il Salento è anche questo...Masserie, Paiare, Dolmen e Menhir

 
Anche questo è il Salento


Le masserie rappresentano una esemplificazione del rapporto tra la vita dell’uomo, il lavoro e la produzione.
Testimoniano il tipo di organizzazione sociale che caratterizzava il salento che, nel medioevo, era strutturato in piccolo insediamenti rurali in cui si producevano grano, olive, cereali oltre ad allevare bestiame per la produ...
zione di latte e formaggio.
In tutte le masserie domina la torre, all’origine abitata dal padrone e utile a facilitare gli avvistamenti.
Oggi molte delle masserie sono state recuperate ed adibite ad agriturismi, alberghi, abitazioni.
                       Anche questo è il Salento..
In un percorso immaginario dell’intero territorio del Salento, tra una masseria e un’altra, balzano agli occhi “Le paiare”, costruzioni a secco utilizzati come ripari temporanei da parte de contadini. Anche questo è il Salento..
Il Salento è anche questo..

Di ben altra datazione, sebbene convivano con le masserie e le paiare, sono i Dolmen e i Menhir, che rappresentano per il salento, una importante testimonianza dell’epoca preistorica..
Il Salento è anche questo..

giovedì 24 marzo 2011

BEETHOVEN, FUR ELISE Piano CLASSICAL MUSIC VIDEO #3 + HD Ocean Waves 1080P

Relaxing Nature Scenes



Queste sono immagini delle spiagge della Florida, ma penso al nostro Mare del Salento, ai Suoi Tramonti e al Rumore del Nostro Mare e Aspettando l' Estate mi accontento di vederlo sul Computer e mi piace pensare che il Mare è sempre li'..MiK

mercoledì 23 marzo 2011

Beethoven / The Final Concerto


Dedico a tutti gli Amici e Amiche del Blog questo video bellissimo dove audio e immagini si fondono.. a voi tutti grazie di esistere MiK.. E state allegri sempre..
finchè potete..

martedì 22 marzo 2011

Alla fine tutte le cose si fondono in una sola e un fiume le attraversa..


"Alla fine tutte le cose si fondono in una sola.. 
e un fiume le attraversa..."

Da “In mezzo scorre il fiume” è stato tratto anche un film di Robert Redford con Brad Pitt, qualche anno fa, eppure si tratta di un libro che pochi conoscono. E invece bisognerebbe che lo leggessero in molti, sempre di più, perché regala molto, è breve, in esso nulla è eccessivo ed è estremamente rivelativo. E’ un libro gustoso nel vero senso della parola, leggendolo vorrete andare a vivere sulla riva di un fiume, del mare, di un qualsiasi corso d’acqua e pescare o veder pescare gli altri, ma vi verrà voglia anche di avere un fratello, e rimpiangerete di non aver con lui un rapporto migliore o di non avere avuto o di non avere maggiori occasioni per giocare assieme, per andare lontani dal lavoro e dalla città a divertirvi. E’ un libro molto semplice ma complesso perché è la storia di un fratello che specchiandosi nell’immagine di suo fratello nell’unico momento e nell’unica attività in cui riesce a stargli vicino, ovvero la pesca, (perché la pesca è l’unica cosa che condividono e amano allo stesso modo), cerca di riconoscersi, di autoanalizzarsi, di capire chi è, che cosa ha in comune con l’uomo che gli è davanti e biologicamente proviene dalla sua stessa famiglia, l’uomo con cui è cresciuto, ha pianto, l’uomo con cui è stato a pesca in centinaia di occasioni nelle quali il loro vecchio padre era aitante e forte. E arriva alla conclusione che è impossibile farlo dacchè suo fratello è diametralmente diverso da lui e lo è sempre stato. Eppure questo non lo esime dall’amarlo, perché amare un fratello ha più senso di ogni altra cosa, sebbene un fratello sia un attaccabrighe, un donnaiolo, un ubriacone. Perché suo fratello ad ogni modo ha il suo stesso sangue, il suo stesso orgoglio, la sua stessa cocciutaggine di irlandese trapiantato nel Montana, la stessa dignità di loro padre, e perché suo fratello è il più grande pescatore di trote dell’intero Stato ed è la cosa che gli riesce meglio e perché avrebbe amato fare solo quello nella sua vita e non aver dovuto lavorare seppure abbia sempre lavorato senza chiedere sconti. E anche perché suo fratello ha malmenato gli smargiassi che da piccolo tiranneggiavano lui, perché suo fratello ha un gangio da atterrare un bisonte e perchè suo fratello, sebbene le notti in prigione, le innumerevoli risse, è sempre suo fratello ed è l’unica cosa che conta.   
“In mezzo scorre il fiume” è anche uno dei pochi romanzi (è un romanzo breve) che parla di pesca, e in particolare di pesca a mosca che è la specialità, l’amore, se non l’unica ragione di vita per i due protagonisti, questi due fratelli del Montana che hanno imparato dal loro vecchio padre l’arte finissima di questa specialità. La pesca di “In mezzo scorre il fiume” però non è la pesca, o anche la caccia di Hemingway e di Faulkner, ovvero il campo in cui gli uomini diventano uomini e in cui ci si misura a colpi di virilità , e non è nemmeno una palestra di vita, così come non è la metafora della lotta tra il bene e il male, o la semantica dell’ottusità dell’uomo nel suo strenue confronto autodistruttivo con la Natura. E’ semplicemente ciò che tiene uniti, non solo al filo del ricordo di ciò che erano, questi due fratelli, questi due individui diversissimi, con due personalità opposte, i quali attraverso di essa cercano di capirsi, di studiarsi, di ripercorrere le proprie esistenze, i loro ricordi.  
Norman Maclean ha lavorato molti anni come taglialegna nei luoghi, nei boschi, nelle montagne che ha narrato e meravigliosamente descritto nel libro.  Dopo una carriera di professore universitario a Chicago ha esordito nientemeno che a 74 anni con questa perla narrativa in cui tutto è magnifico e calibrato alla perfezione,  dalla disanima dei sentimenti alla descrizione dei fiumi, delle pozze, delle trote, delle rocce acuminate tra le quali sembra sentire il gorgoglio dell’acqua furente, assistere allo spumeggiare della corrente, essere abbagliati dal fulmine argentato che il dorso della trota che salta e si inabissa fa baluginare.  
 “Tu sei troppo giovane per aiutare gli altri, e io sono troppo vecchio. E per aiutare non intendo essere gentile e premuroso e regalare soldi o servire gelatina di frutta. Aiutare qualcuno significa dare una parte di se stessi a chi la accetta volentieri e ne ha un assoluto bisogno. Così accade che di rado si riesce ad aiutare qualcuno. O non sappiamo quale parte di noi dare, oppure non abbiamo voglia di darne alcuna. Inoltre, quasi sempre chi ha bisogno di una parte di noi non la vuole. E ancora più spesso, non abbiamo la parte di cui l’altro ha bisogno”.
 “In mezzo scorre il fiume” scorre tra le mani con la velocità con cui si ascolterebbe la narrazione dei ricordi di un uomo davanti ad un caminetto. Perché siamo ormai disabituati all’ascolto e alla lettura di “semplici” racconti, oggi che anche il libro più disimpegnato e insignificante abusa di frasi incidentali, digressioni, subordinate che vogliono spiegare spiegare spiegare per condurre forzatamente il lettore dove l’autore vuole e che hanno come unico fine quello di stancare e annoiare. La prova che non c’è bisogno di splatter omicidi assassini medici legali sesso paranoico per tenere incollato un lettore ad un libro è questo libro. E in più Maclean rilassa ed è meno costoso di un week-end in una beauty-farm! MiK

domenica 20 marzo 2011

L' importante è quello che provi mentre corri..



L' importante non è quello che provi alla fine di una corsa, l' importante è quello che provi mentre corri...Amici MAi..se l' Amore è Amore.. MiK-é

Blu Notte a tutti..


Blu Notte a tutti.. by Colpo di Tacco Salento

Il tempo rivela sempre la vera natura delle persone....

Il tempo rivela sempre la vera natura delle persone....

moon illusion..luna gigante


Se in questi giorni alzate lo sguardo al cielo e vedete la luna più grossa del solito, non vi spaventate. Non ci sta cadendo addosso, e non state nemmeno diventandoipervedenti, è solo un’illusione ottica. Lo spettacolo naturale della “Luna Gigante” si ripete ogni anno pochi giorni prima dell’estate, ed è uno dei giochi di luce più belli che la natura ci può regalare.
Gli americani la chiamano “Moon Illusion“, e per la precisione avviene 2 giorni prima del solstizio d’estate nell’emisfero settentrionale. 
In pratica si vede la luna alla stessa grandezza di quando sorge o tramonta, quando normalmente si vede più grande di quando è in cielo durante la notte.

sabato 19 marzo 2011

il mondo trova ristoro in una calda luminosità...

Come sarebbe dolce andare laggiu' nel paese che ti rassomiglia tanto. i soli bagnati di quei cieli imbronciati hanno per il mio spirito gli incanti così misteriosi dei tuoi occhi insidiosi, tra le loro lacrime brillanti, là tutto è ordine e bellezza, lusso, calma e voluttà. I mobili lustrati, d...agli anni levigati, ornerebbero la nostra stanza, i piu' rari fiori con i loro odori I mobili lustrati, dagli anni levigati, ornerebbero la nostra stanza, i piu' rari fiori con i loro odori mischiati a un' ambrata fragranza, i soffitti sontuosi, gli specchi preziosi, lo splendore orientale, parlerebbe ogni cosa al cuore la silenziosa e dolce lingua natale, là tutto è ordine e ...bellezza, lusso, calma e voluttà. Come sarebbe dolce andre laggiu' nel paese che ti rassomiglia tanto.
Guarda su quei canali dormire vascelli dall' umore vagabondo; E' per esaudire il piu' piccolo dei desideri che vengono dai confini del mondo. I soli calanti rivestono i campi, i canali, l' intera città, di giacinto e d' oro e ...il mondo trova ristoro in una calda luminosità; là, tutto è ordine e bellezza, lusso, calma e voluttà........

giovedì 17 marzo 2011

lentamente muore..




Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,Lentamente muore
chi non cambia la marca, il colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti.
Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati.
Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso.
Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio,
chi non si lascia aiutare;
chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.
Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.
Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità.

viaggio nella terra della luce e dell' ombra

Antartide

Viaggio nella Terra della Luce e dell'Ombra

“Le montagne non sono stadi dove placo la mia ambizione al successo.
Sono cattedrali dove pratico la mia religione.”
Anatolij Boukreev

Testo e foto di Giuseppe Pompili


Sdraiato sul letto di un’anonima camera d’albergo di Punta Arenas, all’estremo sud del Cile, osservo svogliatamente alcune chiazze scure sul soffitto che rivelano la trasandatezza del posto, nonostante i 50 Euro al giorno della singola. Accanto a me, sul comodino, il telefono nero resta ostinatamente silenzioso. Sto aspettando una chiamata, ma i miei vestiti, sparsi a casaccio ai quattro angoli della stanza, tradiscono la mancanza di fiducia sulla possibilità che sia oggi il giorno buono. Sono bloccato qui ormai da sei giorni e le mie chances di partire restano le stesse del primo. Ogni quattro ore Rachel, della Antarctic Logistics & Expeditions (A.L.E.), l’agenzia che fornisce il servizio di trasporto in Antartide, mi comunica il bollettino meteo aggiornato. Non è possibile partire, non finché le raffiche sulla pista d’atterraggio della base di Patriot Hills scenderanno al di sotto dei 20 nodi. Da giorni il vento si mantiene ostinatamente sopra questa soglia e non ci sono le condizioni perché il quadrireattore russo Ilyushin76 possa atterrare in sicurezza. Mike Dell, responsabile commerciale nonché uno dei proprietari della A.L.E., mi aveva avvisato, non senza un pizzico di sadismo, che i voli per l’Antartide non sono regolari voli di linea, di quelli che arrivi all’ultimo, fai il check-in e poi parti, così. Alcuni giorni di attesa a Punta Arenas sono la norma, anzi, dovevo considerarmi fortunato perché i due gruppi precedenti avevano atteso ben dieci giorni. Pare che sia la stagione più inclemente degli ultimi vent’anni...
La dipendenza dal telefono ti consuma. Così, mentre il primo giorno attendevo la chiamata vestito di tutto punto, pronto a partire con la giacca di piumino sottobraccio e gli scarponi con la ghetta integrale ai piedi, ora mi limito a starmene disteso, ascoltando musica dei Negrita. Lo squillo del telefono mi scuote con la forza di una scossa elettrica: “Giusseppi? Good news for you, the wind is now below 14 mph. Just be ready in 30 minutes… we’ll pick you up from Condor de Plata…”. Accidenti! Fra mezz’ora saranno qui, e lo zaino è ancora da fare… dove sono finite le calze pesanti! E non ho ancora messo il rullino in una delle tre macchine fotografiche che mi porto appresso come fossero un talismano anziché un fastidioso ingombro… e dov’è finito il dannato GPS? Meglio tenerlo sempre a portata di mano, non si sa mai… intanto il tempo passa, e mi costringe a mandare al diavolo i buoni propositi. Ficco tutto dentro a casaccio nello zaino e nel borsone, che lascio in deposito. Quando arriva il pullman, mi trova pronto. Appena in tempo. Penso all’ironia di farmi sorprendere in ritardo, avendo avuto a disposizione un’intera settimana. Il problema è che, non appena il meteo diventa favorevole, l’Ilyushin decolla con pochissimo preavviso, chi c’è c’è, in modo da sfruttare al massimo la finestra favorevole e minimizzare il rischio di dover tornare indietro a metà strada. Sul pullman verso l’aeroporto faccio per la prima volta conoscenza con i miei compagni d’avventura. Siamo vestiti pesanti e sembriamo un po’ incongrui nella frizzantina aria primaverile dell’estate australe. Ventotto persone in tutto, di diverse nazionalità, tra cui tre donne. Io sono l’unico italiano, uno dei cinque che, negli ultimi venti anni, si sono imbarcati su questo straordinario volo diretto in Antartide. Quasi tutti gli altri fanno parte di gruppi guidati: riconosco quelli della Alpine Ascents, il gruppo della Seven Summits, i tedeschi dell’Amical, un altro di Victor Saunders, un architetto londinese che ha lasciato la professione per fare il mestiere di guida e capospedizione. Poi ci sono i belgi, i quattro della spedizione commemorativa di Scott, guidata da Geoff Somers, e infine due spaiati come me, Daisuke Tamada, ingegnere elettronico di Tokio e Daniel Tebay, un simpatico insegnante di educazione fisica di un college londinese, entrambi qui per progredire nella loro sfida alle Seven Summits anche se a tutti e due manca ancora l'Everest. Faccio subito la loro conoscenza, perché molto probabilmente dovremo salire il monte Vinson insieme, considerato il fatto che le regole della A.L.E. non permettono alle persone sole di avventurarsi fuori dalla base. Il motivo, oltre all’obbligo dell’autosufficienza imposto dal punto 27.4 del Trattato Antartico, è prevenire incidenti che potrebbero compromettere i delicati equilibri che consentono a questa Agenzia di essere l’unica società privata al mondo ad operare in Antartide. All’aeroporto di Punta Arenas ci sottoponiamo ad un vero e proprio check-in internazionale: lasciamo il Cile con tanto di visto d’uscita sul passaporto tra gli sguardi curiosi e un po’ meravigliati dei turisti diretti a Santiago. Il cargo russo è un pachiderma dell’aria, d’aspetto solido e robusto ma sgraziato come uno struzzo con le ali piegate in basso. Si capisce subito che è stato progettato senza economia, a fini militari. Per un volo in Antartide consuma 90.000 litri di cherosene, fatto che giustifica, almeno in parte, il costo elevato della spedizione. L’interno è un’unica grande stiva illuminata da fioche luci gialle e avvolta in penombra malgrado quattro oblò circolari. Si respira un’atmosfera di sobria vetustà: l’alto soffitto è tutto un groviglio di cavi e tubature, con le catene del carro ponte che oscillano nell’aria che sa d’olio e di benzina. Occorre procedere a tentoni lungo il pavimento ingombro di cataste di rifornimenti per la base e di decine di grossi fusti di carburante. Poco dopo il decollo, i bidoni metallici emettono forti schiocchi a causa della pressurizzazione. Mi guardo intorno, di normali sedili neanche a parlarne, ci sono solo delle lunghe panche laterali… mi scappa da ridere se penso al briefing di sicurezza sui voli di linea… qui, nell’eventualità di un atterraggio d’emergenza, faremmo un bel botto, e tanti saluti. Il rumore assordante impedisce ogni conversazione. Fuori, attraverso i vetri appannati, si intravedono candidi batuffoli di nuvole. Ho più fortuna quando riesco infine a raggiungere la postazione dell’ingegnere di navigazione, situata nel lato inferiore della carlinga. Dalla torretta fa capolino un cielo di cobalto che sbiadisce nella luminosa foschia bianca appiccicata all’orizzonte. Sorvoliamo il canale di Drake e l’intera penisola antartica senza scorgere il minimo dettaglio. A cinque ore dalla partenza, tremila chilometri più a sud, il massiccio aeroplano atterra in maniera sorprendentemente dolce sulla superficie di ghiaccio vetroso, duro come il ferro, sfiorando a poche centinaia di metri le affilate creste rocciose delle vicine colline. L’Ilyushin non spegne neppure i motori, ma scarica e carica in fretta, per ripartire poco dopo con un rombo assordante. Scendo goffo e impacciato attraverso lo scivolo di coda, troppo coperto per gli stentati undici gradi sottozero che mi attendono fuori. Anche se ci avevano avvisati di guardare dove mettevamo i piedi, assisto a qualche acrobatico capitombolo sul ghiaccio trasparente della pista, liscia come un tavolo da biliardo. Questo ghiaccio denso e antico, di colore blu per l’assenza di bolle d’aria, si forma in condizioni molto particolari, quando l’ablazione è maggiore della precipitazione. Solo la sua presenza consente l’atterraggio del pesante aeromobile e, di conseguenza, l’esistenza stessa della base di Patriot Hills. E’ con grande emozione e molta cautela che poso piede per la prima volta sul ghiaccio antartico, un istante tante volte immaginato da apparirmi ora quasi normale. Il sole splende alto, anche se è quasi mezzanotte, incastonato in un limpido cielo turchese senza nuvole. Non devo preoccuparmene: mi trovo a 80 gradi di latitudine sud e, per i prossimi tre mesi, non tramonterà mai. Il personale della base è cortese ed efficiente. Ci chiedono se qualcuno desidera uno strappo in motoslitta fino alle tende. Declino l’invito, come la maggior parte dei nuovi ospiti, perché preferisco sgranchirmi le gambe percorrendo a piedi il chilometro che ci separa dalla base. L'altopiano gelato dove mi trovo è chiuso a oriente dalla catena di colline del Patriota, basse e scure, che proseguono in lontananza sino alle “Montagne di Marmo”. Più oltre, la catena sprofonda nel ghiaccio per riemergerne solo molto più avanti, assai bassa sull’orizzonte. A sud non ci sono ostacoli e lo sguardo è libero di spaziare in direzione del Polo, distante un migliaio di chilometri. A ovest, quasi un puntolino nella bianca distesa, sorge un solitario nunatak, le “Tre Vele”. Provo un brivido, ma non è per il freddo. Credo che parte del fascino dell’Antartide risieda nella possibilità di ammirare dal vivo lo spettacolo della natura. Si prova una bizzarra sensazione nel sentirsi così piccoli e inermi al cospetto di un paesaggio schiacciante, ma al tempo stesso è molto seducente sporgersi nel vento e sentirne le gelide carezze. Non c’è nulla di razionale in tutto questo, ma a volte è bellissimo essere incoerenti. E’ come per un bambino sguazzare nelle pozzanghere o sporcarsi di proposito col fango, e tutto possiede lo stesso fascino.
Patriot Hills è un campo mobile che poggia su di un ghiaccio spesso oltre seicento metri. Un grappolo di tende colorate che, all’inizio di ogni estate, viene rimontato in una posizione leggermente diversa per impedire che la neve si accumuli sottovento alle tende, generando nuovi rilievi sulla superficie. Ai margini, dietro ad un mucchio di fusti di benzina, ci sono i Twin Otters, tre motoslitte e un paio di cingolati per sgombrare la pista dalla neve soffiata dal vento. All’arrivo, siamo accolti dal comandante, Mike Sharp, un veterano del British Antarctic Survey espertissimo di faccende antartiche nonché uno dei proprietari della A.L.E., che ha fatto preparare la cena. Più che di una cena si tratta di un banchetto, con pasta al forno, generose fettone di roastbeef con contorno di purè e verdura fresca, frutta e zuppa inglese, il tutto innaffiato da birra e vino a volontà! Caspita, ma qui siamo all’ingrasso! Non faccio in tempo a sedermi a tavola che un omone si avvicina e mi saluta abbracciandomi stretto con la sua morsa da plantigrado… è Victor Boyarsky, forse il più grande esploratore russo, che mi aveva guidato al Polo Nord alcuni anni fa. Ci perdiamo in chiacchiere, mentre mi accompagna al tavolo di Mike Sharp e Geoff Somers curioso di sapere delle mie avventure sull’Everest, facendomi perdere così il drink di benvenuto, fatto con ghiaccio che risale alla rivoluzione francese… noblesse oblige! Immediatamente, le mie quotazioni presso i miei due nuovi amici, l’inglese e il giapponese, salgono alle stelle. Ci vorrà del bello e del buono per rassicurarli che sono una persona qualunque, per giunta poco allenata, che ha avuto il privilegio di conoscere, per puro caso, alcuni grandi. Dopo un sonno tranquillo in una spaziosa tenda della base, con brandina e materassino, mi comunicano che il tempo al campo base del Vinson volge al bello per cui partiremo subito dopo colazione. Due Twin Otters, carichi dei nuovi arrivati, decollano sui pattini uno dopo l’altro e proseguono appaiati durante tutto il volo sopra il Liberty Range e le propaggini meridionali dei Monti Ellsworth. A bordo c’è posto per otto persone, oltre al pilota, più tutto il nostro equipaggiamento che comprende tende, slitte, sci, combustibile e viveri per due settimane. Il motivo per cui si cerca di riempire il più possibile il turboelica è che per coprire i 215 km che separano Patriot Hills dal campo base del Vinson ci vogliono 27.000 dollari di carburante. La benzina in Antartide vale oro. Per inciso, questa è anche la cifra minima che occorre pagare per un’evacuazione d’emergenza, senza contare l’eventuale volo extra dell’Ilyushin… i congelamenti qui sono solo per chi se li può permettere, uomo avvisato... !
L’aereo si dirige verso ovest. Sorvoliamo rilievi che si allungano in catene parallele alla nostra direzione di volo. Zone pianeggianti si alternano a campi di crepacci e correnti glaciali che riversano la loro mole verso il mare, nella barriera di Ronne. Le creste scure sotto di noi si alzano gradualmente e diventano picchi talmente scoscesi che la neve non riesce ad aderire stabilmente sui loro fianchi. In direzione sud le catene si abbassano e scompaiono, inghiottite dalle vastità gelate dell’interno. Dopo un lungo tratto parallelo alle montagne, atterriamo in salita sul ghiacciaio Branscomb, all’imbocco di un’ampia valle chiusa da ripide pareti rocciose. È il campo base del Vinson, il monte più alto dell’Antartide. Il Twin Otter ci scarica e riparte subito. Tornerà tra una decina di giorni, tempo permettendo. I miei due nuovi compagni ed io iniziamo subito a montare la tenda. Il tempo è splendido, non una nuvola turba lo splendore turchino del cielo. La luce è intensa e purissima, non solo a causa del riflesso del ghiaccio. E’ una luminosità diversa da qualsiasi altra, perché qui l’aria è quasi del tutto priva di umidità e polveri sospese. Davanti a me troneggia una ripida scarpata rocciosa alta duemila metri, solcata da imponenti seraccate che si gettano a valle dal pianoro superiore. Lassù, remota e minuscola, fa capolino l’inconfondibile cima piramidale del Vinson, alta 4897 metri. Più che una semplice montagna, il Vinson è un massiccio di 13 per 21 chilometri situato nel bel mezzo dei monti Ellsworth. La catena si protende in direzione est-ovest a un migliaio di chilometri dal Polo Sud, nel cuore dell’Antartide, di cui costituisce la massima elevazione. Le nude cime di roccia metamorfica, la maggior parte delle quali ancora senza nome, hanno più di cento milioni d’anni. L’attrito millenario del mantello di ghiacci ne ha scolpito i possenti fianchi, danzando al ritmo delle ere glaciali. Nulla turba l’immacolato nitore delle valli, né morene né macigni o detriti. Persino la sabbia e la polvere sono state spazzate via da tempo immemorabile. Le proporzioni qui sono tali da ingannare facilmente la percezione delle distanze. In pochi minuti credi di poter arrivare a un luogo in apparenza vicino e invece ci vogliono delle ore, come fosse un miraggio. La cima dista sei chilometri in linea d’aria dal campo base, alto circa duemila metri, ma per salirla occorre percorrerne più di venti. Domani vedremo. E’ una fortuna aver trovato questo bel tempo, dove la vista può spaziare senza limiti nell’aria limpida, indugiando fino al remoto Polo. Non fa neppure troppo freddo, stimo una quindicina di gradi sotto lo zero. Il desiderio di imprimere tutto nella mente e di godermi questi momenti mi tengono sveglio sino a mezzanotte, ora di Punta Arenas, le tre al meridiano locale. Il sole qui in estate non tramonta mai. Si limita a descrivere una traiettoria circolare in cielo, senza abbassarsi mai troppo. Le ore scorrono identiche l’una dopo l’altra. In assenza di nuvole e vento, tutto è immobile e silenzioso. Solo le ombre delle montagne si muovono, seguendo il cerchio del sole. Quando l’ombra mi raggiunge, la temperatura precipita di colpo di una decina di gradi. E’ ora di entrare in tenda nel tepore del sacco piuma. Con i miei due compagni ci alziamo solo dopo le dieci, quando l’ombra ci ha lasciato. Appena il sole ci illumina il telo si scalda e la brina del nostro fiato incrostata alle pareti della tenda, inizia a sciogliersi, gocciolando fastidiosamente. Ci prepariamo lentamente, senza fretta, caricando la slitta e allacciandoci sci e scarponi. Dopo esserci legati in cordata, iniziamo a risalire il ghiacciaio. La nebbia si alza e ci avvolge quando per fortuna siamo in prossimità del campo uno. Mi libero degli sci e inizio a scavare la neve morbida per ricavare grossi blocchi rettangolari che dispongo a forma di muro di recinzione attorno alla tenda. Il riparo deve essere robusto e i lembi della tenda bene ancorati per evitare che il vento se la porti via in caso di bufera. Intanto, i miei due compagni sciolgono la neve e preparano la cena sul fornello a benzina. Nuvole basse ci avvolgono ma siamo già chiusi dentro la tenda, al sicuro. L’ombra e la morsa di gelo che l’accompagna ci lasciano solo alle 11 del giorno dopo. Oggi decidiamo di non muoverci e di dedicare la giornata salendo un colle a due chilometri del campo, per favorire l’acclimatazione. Un’altra giornata trascorre immobile, prima di dirigerci verso l’headwall, un enorme scivolo ghiacciato che porta al colle tra il Vinson e lo Shinn, la terza montagna dell’Antartide. Dietro allo Shinn fanno capolino due altri giganti di roccia, il Gardner e l’Epperly, rispettivamente la quarta e la sesta montagna del continente. Per salire l’headwall, mi tolgo gli sci e me li metto sullo zaino. Occorre molta cautela in questa sezione per via dei crepacci nascosti e della caduta di seracchi dall’alto, per cui indossiamo i ramponi e, legati, piccozza alla mano, procediamo facendo brevi pause per riprendere fiato. Il ripido pendio è cosparso di blocchi di ghiaccio compatto precipitati di recente, è meglio fermarsi qui sotto solo lo stretto tempo necessario, anche perché siamo entrati nell’ombra dello Shinn e il gelo si fa presto sentire. Finalmente raggiungiamo il colle tra le due montagne, alla quota di 3750 metri e il terreno diventa di nuovo pianeggiante. Montiamo la tenda al bordo del colle, non lontano dalla seraccata dell’headwall e ci prepariamo ad un altro giorno di riposo. Lascio i miei compagni per fare un’escursione attraverso il colle e dare una sbirciatina sull’altro versante della catena. Dopo un’ora di cammino non sono ancora arrivato in vista della fine: qui tutto è così immenso. Anziché oziare nella gelida tenda, un po’ per riscaldarmi un po’ per fare qualcosa, decido di aiutare le guide della A.L.E. che stanno rimuovendo una montagna di urina gelata, lasciata in eredità dai gruppi dell’estate scorsa. Scopro così che non sempre tutti rispettano alla lettera le prescrizioni. Infatti, dopo che il bidone di plastica adibito alla raccolta dell’urina del campo 2 si era riempito sino all’orlo, alcuni sozzoni non si erano fermati, ma avevano continuato a riempirlo anche quando il liquido era debordato, creando un lastrone gelato color canarino spesso 30 centimetri. Nell’arido ambiente antartico le macchie gialle possono restare visibili per molti anni… i soliti furbi per cui il diritto di sporcare è compreso nel prezzo. Le guide avevano l’incarico di rimuovere il brutto pasticcio. Armati di pala e piccone ci diamo da fare per frantumare il ghiaccio giallo, riempiendo dei sacchi che poi svuotiamo in un vicino crepaccio. Quando arriva l’ora di cena, riscaldo sotto alla giacca un salame gelato e me lo mangio di gusto: non capita spesso di divertirsi faticando. La notte trascorre tranquilla, anche se il vento è aumentato. Vestiti di tutto punto e imbragati partiamo alle nove, nonostante il freddo intenso, perché oggi è il giorno più lungo, il giorno della vetta. Il pendio si fa più dolce, permettendomi di procedere con gli sci ai piedi. Sono l’unico, visto che tutti gli altri li hanno abbandonati ai piedi dell’headwall. L’imponenza del paesaggio è tale che si nasconde persino a sé stesso, celando la vetta sin quasi al termine della salita. Gli ultimi duecento metri di dislivello si fanno in cresta, per cui lascio gli sci accanto allo zaino e mi armo di piccozza. La cresta è sottile, elegante ed aerea. Bellissima. Nuvole leggere scavalcano i fianchi della montagna, sospinte da un lieve vento da nord, dal mare lontano, ma io sto salendo con loro, e con gli U2 nelle orecchie. Supero una falsa cima, che dal basso sembra quella vera, poi proseguo lungo la sinuosa cresta di roccia che precipita vertiginosa verso il basso da un lato e con un ripido pendio dall’altro. La cresta si fa ripida e il fiatone dovuto alla quota mi fa fermare un paio di volte, ma ormai il cucuzzolo nevoso è sempre più vicino. Giungo sul punto culminante, segnalato da una corta asta di alluminio che è lì da vent’anni, intorno alle tre del pomeriggio, il mezzogiorno locale. Non fa poi così freddo, è l’ora più calda e ci saranno meno venti, Ne approfitto per spogliarmi e riprendere la classica foto di vetta in mutande, dedicata a tutti quelli (e non sono solo alpinisti) che si prendono troppo sul serio. La cima regala una vista incomparabile. L’orizzonte meridionale è dominato dalla calotta dell’Antartide Occidentale, un oceano di ghiaccio che si alza gradualmente sino a fondersi col cielo in un candore accecante. Tutto intorno sorgono montagne inviolate. Il versante opposto precipita nel ghiacciaio Dater, che si getta più in basso nella corrente glaciale di Rutford, un fiume di ghiaccio a scorrimento veloce (più di un metro al giorno) che alimenta il tavolato di Filchner Ronne, l’enorme barriera madre di tutti i grandi iceberg. Ma è già ora di scendere, la nebbia si alza, il vento rinforza e la giornata si chiude nel whiteout quando fortunatamente siamo già a poche centinaia di metri del campo due. Il giorno dopo il cielo è di nuovo sereno e mi godo la discesa. Devo ammettere che sciare sui sastrugi con uno zaino da venti chili contenente i miei stessi rifiuti stivati negli appositi wag-bag non è esattamente il massimo del divertimento… Eppure, due giorni dopo, circondato dal relativo comfort di Patriot Hills, mentre attendo l’Ilyushin, mi prende un groppo alla gola. Sento già la mancanza di questa terra severa che forse non rivedrò più, la sua indifferente bellezza, le montagne che sorgono come cattedrali nel deserto, il suono del vento, l’ombra e la luce, la luce.

mercoledì 16 marzo 2011

La torta dell' Amore..

Per esprimere l'Amore, sentimento che sfugge alle parole,
Cartier si e' rivolto a Christophe Michalak, chiedendogli di creare la torta dell' Amore.
Posso solo dirVi che era Meravigliosa, Speciale e Unica ..sotto lo strato superiore rosso si nascondeva infatti la tenerezza di un  biscotto aromatizzato al lampone e ai fiori d' arancia:  un abbinamento arguto .
Intanto Vi mando  questa foto..a tutti gli Amici innamorati e non..
Meditate gente Meditate..Ma sopratutto gustate bene l' Amore..
L' Amore  non è mai al primo assaggio merita Meditazione.
Buon Pomeriggio da Colpo di Tacco
A Parigi si riuniscono da sempre tutti i piu' grandi pasticceri..Christophe è uno dei miei preferiti..
A ciascuno i suoi gusti.. MiK

stiamo lavorando per >Voi Scusate il disagio..

Stiamo lavorando per Voi..
Scusate il Disagio.. Buon Buongiorno a tutti

lunedì 14 marzo 2011

Il presente è il solo momento di cui siamo padroni...


Predefinito Le tre domande di Lev Tolstoj

Un giorno, un certo imperatore pensò che se avesse avuto la risposta a tre domande, avrebbe avuto la chiave per risolvere qualunque problema:

• Qual è il momento migliore per intraprendere qualcosa?
• Quali sono le persone più importanti con cui collaborare?
• Qual è la cosa che più conta sopra tutte?

L'imperatore emanò un bando per tutto il regno annunciando che chi avesse saputo rispondere alle tre domande avrebbe ricevuto una lauta ricompensa.
Subito si presentarono a corte numerosi aspiranti, ciascuno con la propria risposta.

Riguardo alla prima domanda, un tale gli consigliò di
preparare un piano di lavoro a cui attenersi rigorosamente,
specificando l'ora, il giorno, il mese e l'anno da riservare
a ciascuna attività. Soltanto allora avrebbe potuto
sperare di fare ogni cosa al momento giusto.
Un altro replicò che era impossibile stabilirlo in
anticipo; per sapere cosa fare e quando farlo, l'imperatore
doveva rinunciare a ogni futile svago e seguire attentamente il corso degli eventi. .
Qualcuno era convinto che l'imperatore non poteva essere tanto previdente e competente da decidere da solo quando intraprendere ogni singola attività; la cosa migliore era istituire un Consiglio di esperti e rimettersi al suo parere.
Qualcun altro disse che certe questioni richiedono una
decisione immediata e non lasciano tempo alle consultazioni; se però voleva conoscere in anticipo l'avvenire, avrebbe fatto bene a rivolgersi ai maghi e agli indovini.

Anche alla seconda domanda si rispose nel modi più
disparati.
Uno disse che l'imperatore doveva riporre tutta la sua
fiducia negli amministratori, un altro gli consigliò di
affidarsi al clero e ai monaci; c'era chi gli raccomandava i
medici e chi si pronunciava in favore dei soldati.
La terza domanda suscitò di nuovo una varietà di pareri.
Alcuni dissero che l'attività più importante era la scienza. Altri insistevano sulla religione. Altri ancora affermavano che la cosa più importante era l'arte
militare.

L'imperatore non fu soddisfatto da nessuna delle risposte, e la ricompensa non venne assegnata.
Dopo parecchie notti di riflessione, l'imperatore decise di andare a trovare un eremita che viveva sulle montagne e che aveva fama di essere un illuminato. Voleva cercarlo per rivolgere a lui le tre domande, pur sapendo che l'eremita non lasciava mai le montagne e riceveva solo la povera gente, rifiutandosi di trattare con i ricchi e i potenti. Perciò, rivestiti i panni di un semplice
contadino, ordinò alla sua scorta di attenderlo ai piedi del monte e si arrampicò da solo su per la china in cerca dell'eremita.

Giunto alla dimora del sant'uomo, l'imperatore lo trovò che vangava l'orto nei pressi della sua capanna.
Alla vista dello sconosciuto, l'eremita fece un cenno di
saluto col capo senza smettere di vangare. La fatica gli si leggeva in volto. Era vecchio, e ogni volta che affondava la vanga per smuovere una zolla, gettava un lamento.
L'imperatore gli si avvicinò e disse: "Sono venuto per chiederti di rispondere a tre domande

Qual è il momento migliore per intraprendere qualcosa? 
Quali sono le persone più importanti con cui collaborare? 
Qual è lacosa che più contasopra tutte?".

L'eremita ascoltò attentamente, ma si limitò a dargli un'amichevole pacca sulla spalla e riprese a vangare.
L'imperatore disse: "Devi essere stanco. Sù, lascia che ti dia una mano''. L'eremita lo ringraziò, gli diede la vanga e si sedette per terra a riposare.
Dopo aver scavato due solchi, l'imperatore si fermò e si rivolse all'eremita per ripetergli le sue tre domande. Di nuovo quello non rispose, ma si alzò e disse, indicando la vanga: , "Perché non ti riposi? Ora ricomincio io''. Ma
l'imperatore continuò a vangare. Passa un'ora, ne passano due.

Finalmente il sole comincia a calare dietro le montagne. L'imperatore mise giù la vanga e disse all'eremita: ''Sono venuto per rivolgerti tre domande. Ma se non sai darmi la risposta ti prego di dirmelo, così me ne ritorno a casa mia''.
L'eremita alzò la testa e domandò all'imperatore:
"Non senti qualcuno che corre verso di noi?".
L'imperatore si voltò. Entrambi videro sbucare dal folto degli alberi un uomo con una lunga barba bianca che correva a perdifiato premendosi le mani insanguinate sullo stomaco. L'uomo puntò verso l'imperatore, prima di
accasciarsi al suolo con un gemito, privo di sensi.
Rimossi gli indumenti, videro che era stato ferito gravemente. 
L'imperatore pulì la ferita e la fasciò servendosi della propria camicia che però in pochi istanti fu completamente intrisa di sangue. Allora la sciacquò e rifece la fasciatura più volte, finché l'emorragia non si fu fermata.

Alla fine il ferito riprese i sensi e chiese da bere. 
L'imperatore corse al fiume e ritornò con una brocca d'acqua fresca. Nel frattempo, il sole era, tramontato e l'aria notturna cominciava a farsi fredda. L'eremita aiutò l'imperatore a trasportare il ferito nella capanna e ad adagiarlo sul suo letto. L'uomo chiuse gli occhi e restò immobile. 
L'imperatore era sfinito dalla lunga arrampicata e dal lavoro nell'orto. Si appoggiò al vano della porta e si addormentò. Al suo risveglio, il sole era già alto. Per un attimo dimenticò dov'era e cos'era venuto a fare. Gettò un'occhiata al letto e vide il ferito che si guardava attorno smarrito. Alla vista dell'imperatore, si mise a fissarlo intensamente e gli disse in un
sussurro: "Vi prego, perdonatemi". "Ma di che cosa devo perdonarti?", rispose l'imperatore.
'Voi non mi conoscete, maestà, ma lo vi conosco. Ero vostro nemico mortale e avevo giurato di vendicarmi perché nell'ultima guerra uccideste mio fratello e vi impossessaste dei miei beni. Quando seppi che andavate da solo sulle montagne in cerca dell'eremita, decisi di tendervi un agguato sulla via del ritorno e uccidervi. 
Ma dopo molte ore di attesa non vi eravate ancora fatto vivo,
perciò decisi di lasciare il mio nascondiglio per venirvi a
cercare. Ma invece di trovare voi mi sono imbattuto nella scorta, che mi ha riconosciuto e mi ha ferito. Per fortuna, sono riuscito a fuggire e ad arrivare fin qui. Se non vi avessi incontrato, a quest'ora sarei morto certamente.
Volevo uccidervi, e invece mi avete salvato la vita! 
La mia vergogna e la mia riconoscenza sono indicibili. Se vivo, giuro di servirvi per il resto dei miei giorni e di imporre ai miei figli e nipoti di fare altrettanto. Vi prego,concedetemi il vostro perdono''.

L'imperatore si rallegrò infinitamente dell'inattesa
riconciliazione con un uomo che gli era stato nemico. Non solo lo perdonò, ma promise di restituirgli i beni e mandargli il medico e i servitori di corte per accudirlo finché non fosse completamente guarito. Ordinò alla sua scorta di riaccompagnarlo a casa, poi andò in cerca dell'eremita. Prima di ritornare a palazzo, voleva riproporgli le tre domande per l'ultima volta. Lo trovò che seminava nel terreno dove il giorno prima avevano vangato.

L'eremita si alzò e guardò l'imperatore. "Ma le tue domande hanno già avuto risposta".
"Come sarebbe?", chiese l'imperatore, perplesso.
"Se ieri non avessi avuto pietà della mia vecchiaia e non mi avessi aiutato a scavare questi solchi, saresti stato aggredito da quell'uomo sulla via del ritorno. Allora ti saresti pentito amaramente di non essere rimasto con me.
Perciò, il momento più importante era quello in cui
scavavi i solchi, la persona più importante ero io, e la
cosa più importante da fare era aiutarmi.
Più tardi,
quando è arrivato il ferito, il momento più importante
era quello in cui gli hai medicato la ferita, perché se tu non lo avessi curato sarebbe morto e avresti perso l'occasione di riconciliarti con lui. Per lo stesso motivo,la persona più importante era lui e la cosa più importante
da fare era medicare la sua ferita
.
Ricorda che c'è un unico momento importante: Questo. 
Il presente è il solo momento di cui siamo padroni. La persona più importante è sempre quella con cui siamo, quella che ci sta di fronte,
perché chi può dire se in futuro avremo a che fare con altre persone?
La cosa che più conta sopra tutte è rendere felice la persona che ti sta accanto, perché solo questo è lo scopo della vita''.


Siamo capaci di fare di fare questa cosa? Cosa ce lo impedisce?

Mi è piaciuto molto questo breve racconto sopratutto apprezzo la grande capacità di rendere semplice ogni cosa, in poche parole di saper spiegare in modo semplice a tutti del grande Lev Tolstoj.. Colpo di tacco forever

domenica 13 marzo 2011

Franco Battiato- Shakleton



Una catastrofe psicosomatica.. Niente di piu' attuale.. AxO MiKè

Io stuo con i Giapponesi..


LA SPESA SI PAGA DOMANI
Il negozio di generi vari, un minimarket, nel villaggio di Rikuzentakata ormai inghiottito dall'oceano sbarcato sulla terra, era in pratica l'unico edificio rimasto in piedi, sopra una piccola gibbosità della terra. La processione dei clienti, divenuto un corteo di profughi a casa propria, è cominciata appena le acque lo hanno permesso. Massaie e bambini, poi gli uomini, lo hanno diligentemente svuotato di tutto, dalle ministre liofilizzate alle bottiglie d'acqua, sotto lo sguardo dei proprietari, marito e moglie, Toshio e Kumi Niioka. Nessuno di loro ha pagato niente, non funzionavano registratori, carte di credito, e non c'era modo di fare conti e cambiare contanti. "Si sono portati via tutto, ma soltanto quello che riuscivano a mettersi tra le braccia" spiega alla Nhk, la tv di stato, perfettamente sereno. "Tanto so che quando questa maledizione sarà passata tutti torneranno in negozio a pagare per quello che hanno portato via".
                Hotel dei Pini.. Località indefinita..


"Nessuno si salva da solo..." di M.M.
- Dillo.
- Cosa ?
- Di' che non mi ami piu'. Dillo adesso che siamo in pace.. cosi' me ne faccio una ragione.
Gli sorride con quei denti che si sono ingoiati il paradiso.
...
- Non Ti Amo piu' MiKè-LE.
Annuisce e Ride con Lei..poi gli occhi si fermano e si gonfiano di tutto, come quelli dei bambini.
- Dillo anche tu.
- Io non lo posso dire.
- Dillo.
- Non ti amo piu', Margaret.
- Lo vedi..lo possiamo dire.

sabato 12 marzo 2011

Il Salento è luogo fatto di terra rossa...

Il salento è luogo fatto di terra rossa e sole, luogo di contadini e agricoltura che si perde nella notte dei tempicome testimoniano le distese di ulivi secolari che si incontrano percorrendolo in lungo e in largo..
Buon Inizio di fine settimana by Colpo di Tacco Salento

giovedì 10 marzo 2011

Lascia Stare.......................

                              


"Guarda che le cose che ti dico non si amano se devi amare devi amare me...."
Lascia stare..
AxS MiK

“Abbiamo raggiunto la nuda anima dell’uomo”.H.S.


L’8 agosto 1914, sir Ernest Shackleton, esploratore inglese di fama mondiale, parte da Plymouth al comando della nave Endurance.
La sua meta è l’Antartide.
Il Polo Sud era stato toccato per la prima volta dal norvegese Amundsen nel 1911, un mese prima dell’inglese Scott, morto nel viaggio di ritorno.
Shackleton vuole conquistare l’ultimo primato: attraversare a piedi il continente antartico.
Ma il suo sogno svanisce nel gennaio del 1915: a soli 150 km dalla meta, il ghiaccio si chiude come una morsa intorno alla nave, trascinandola per oltre duemila chilometri verso Nord Ovest nella deriva del pack, sempre piu’lontana dalla sua meta originaria.
In ottobre il ghiaccio ha ormai stritolato e distrutto la Endurance.
Shackleton ordina l’abbandono della nave. Non resta che mettere in salvo poche provviste ed effetti personali e impiantare un accampamento, il “Campo Oceano”.
Sbarcano 27 membri di equipaggio e il capitano (e in piu’ 60 cani da slitta, due maiali e il gatto di bordo, Mrs Chippy), trascorrendo la prima notte sul ghiaccio in tende di lino, ad una temperatura
di -27°C.
Bisogna attendere il disgelo e combattere lo scoramento che si impadronisce degli uomini.
Shackleton,da perfetto comandante,si rivela maestro nel gestire la difficile situazione.
Nell’aprile del 1916 riesce a condurre i suoi, a bordo delle tre scialuppe dell’Endurance, su un’isoletta sperduta, Elephant Island.
Da qui Shackleton salpa il 24 aprile a bordo di una scialuppa, insieme a cinque dei suoi uomini, con l’intento di raggiungere la stazione baleniera della Georgia Australe.
Il resto della spedizione rimane in attesa sull’isola.
Dopo 17 giorni e 1300 km di rischiosissima navigazione, Shackleton e i suoi approdano sulle coste della Georgia Australe, sbarcando però a 240 km dalla meta prevista.
Qui il comandante lascia metà del suo equipaggio, proseguendo con Worsley e Crean.
I tre attraversano l’isola via terra,con molte difficoltà, superando una catena montuosa e arrivando finalmente alla stazione baleniera nella Baia di Stromness. E’la salvezza.
Il 20 maggio il capitano torna a recuperare gli altri due uomini lasciati sull’isola.
Il 30 agosto 1916, dopo tre tentativi falliti, Shackleton
vince il pack a bordo di un rimorchiatore cileno e recupera gli uomini rimasti a Elephant Island.
E’la fine di un esilio terribile, combattuto coraggiosamente.
Nel 1921 Shackleton si imbarcò per la sua quarta spedizione nel Polo Sud. Il 4 gennaio 1922, mentre arrivava nella Georgia Australe, mori’ per un attacco cardiaco a bordo della nave Quest, all’età di 47 anni.
Per volere della moglie, fu sepolto nel cimitero dell’isola.

mercoledì 9 marzo 2011

Ligabue Radiofreccia la scena più bella

                             
Radio Freccia .."Credo che per credere bisogna avere molta energia"..
Credo nelle rovesciate di Bonimba, e nei riff di Keith Richards. Credo al doppio suono di campanello del padrone di casa, che viene a prendere l'affitto ogni primo del mese. Credo che ognuno di noi si meriterebbe di avere una madre e un padre che siano decenti con lui almeno finché non si sta in piedi. Credo che un'Inter come quella di Corso, Mazzola e Suarez non ci sarà mai più, ma non è detto che non ce ne saranno altre belle in maniera diversa. Credo che non sia tutto qua, però prima di credere in qualcos'altro bisogna fare i conti con quello che c'è qua, e allora mi sa che crederò prima o poi in qualche Dio. Credo che se mai avrò una famiglia sarà dura tirare avanti con trecento mila al mese, però credo anche che se non leccherò culi come fa il mio caporeparto difficilmente cambieranno le cose. Credo che c'ho un buco grosso dentro, ma anche che, il rock n'roll, qualche amichetta, il calcio, qualche soddisfazione sul lavoro, le stro**ate con gli amici ogni tanto questo buco me lo riempiono. Credo che la voglia di scappare da un paese con ventimila abitanti vuol dire che hai voglia di scappare da te stesso, e credo che da te non ci scappi neanche se sei Eddie Merckx. Credo che non è giusto giudicare la vita degli altri, perché comunque non puoi sapere proprio un ca**o della vita degli altri ..Freccia (Stefano Accorsi) Addioperora MiK